“Facebook in the rain” di P.Mastrocola
di Maria Pia Fontana
Il romanzo, scritto dalla Mastocola nel 2012, affronta un tema di grande attualità che è quello della dipendenza da internet e, nel caso specifico, dal social network Facebook come esito della povertà relazionale e del vuoto esistenziale, con il merito di contribuire a sfatare uno degli stereotipi diffusi, che tende ad attribuire questo problema esclusivamente o principalmente ad un fascia d’età giovanile oppure adolescenziale. La protagonista, infatti, Evandra, è una casalinga di 48 anni, vedova, che abita da sola e ha una figlia che si è trasferita in un’altra città per frequentare l’università. Il meccanismo che sembra stare alla base del progressivo scivolamento della donna nella spirale della patologia è sostanzialmente quello che caratterizza le altre forme di dipendenza, come quella “tradizionale” da sostanze, per cui l’abuso di qualcosa o la condotta compulsiva diventa compensatorio o sostitutivo di una mancanza, di un bisogno frustato, frequentemente di tipo affettivo. Se, tuttavia, lo stato di vulnerabilità sociale e di solitudine della donna è sufficientemente descritto dalla Mastrocola, a mio parere lo stesso non può dirsi per la condizione di dipendenza da Facebook che avrebbe richiesto un approfondimento sia sul piano dei meccanismi psicologici che delle specificità del mezzo.
L’autrice descrive l’incapacità della protagonista di porre un freno al bisogno compulsivo di collegarsi in rete, che diventa un impulso imperioso che progressivamente impedisce alla donna di svolgere altre attività, come ad esempio trascorrere i pomeriggi al cimitero, luogo che, nei fatti, era divenuto paradossalmente l’unico contesto di socializzazione (ma incontrarsi con le altre vedove per giocare a carte tra le lapidi mi sembra un po’ irrealistico oltre che grottesco). A tal riguardo la Mastrocola evidenzia come Evandra si senta in colpa nei confronti del marito defunto per il fatto di non riuscire più ad andare al cimitero con la stessa frequenza di prima, ma non dice nulla rispetto a qualche tratto tipico della dipendenza, come ad esempio il corrosivo senso di disistima che coglie la persona che perde il controllo di sé quando si vede totalmente asservita a qualcosa. Nello stesso tempo mi sembra poco sviluppato uno degli aspetti che caratterizza la comunicazione mediata dalle tecnologie, specie quando si ricorre principalmente o esclusivamente alla parola scritta sia nella forma sincrona (chat) che asincrona (messaggi privati, e-mail) come la tendenza a compensare la mancanza dei segnali non verbali propri dell’interazione diretta con un’intensa attività immaginifica, in gran parte di tipo proiettivo. In sostanza, i processi di idealizzazione dell’interlocutore possono essere enfatizzati dall’interazione mediata dalle tecnologie con il rischio di rendere troppo preponderante l’attitudine a crogiolarsi nel sogno e nella fantasticheria, predisposizione che comunque viene stimolata ogni qual volta si ha esperienza di ciò che definiamo “innamoramento”. Parallelamente, nei casi di grave dipendenza, si assiste frequentemente all’inibizione della capacità di comunicazione face to face, mentre, al contrario, comunicare dietro uno schermo e attraverso una tastiera sembrano disinibire ed incoraggiare ad una intimità emotiva profonda sia per l’effetto di attenuazione dei vincoli etici e delle norme situazionali che marcano la relazione diretta, e sia per il minor condizionamento della fisicità, quando il corpo è considerato “un impaccio” o produce sentimenti di imbarazzo.
In definitiva, mi chiedo che tipo di conoscenza la Mastrocola abbia dello strumento (e del suo abuso) su cui ha scelto di scrivere questa storia che precipita nella desolazione per uno stratagemma, a dir poco improbabile, dell’amico di Evandra, segretamente innamorato di lei. La lettura del romanzo resta tuttavia utile per l’opportunità di riflettere sul tema, visto che le relazioni e l’affettività dovranno sempre più confrontarsi con i nuovi strumenti di comunicazione. Essi ovviamente non sono la “causa” di disagio, in quanto le radici vanno cercate a monte, in problematiche di ordine affettivo, psicologico o esistenziale, ma le caratteristiche intrinseche e le funzionalità dei nuovi media e ambienti digitali possono incidere molto sulle manifestazioni di tale disagio. Nel caso, invece, si mantenga un buon livello di maturità psicologica ed affettiva, l’uso virtuoso dei social network può incrementare le capacità relazionali e rendere più stimolante ed eterogenea la rete sociale di riferimento. Ma occorrerebbe sempre tenere desta l’attenzione sui rischi, oltre che sulle potenzialità. Da tempo ormai, chi studia gli effetti che la comunicazione mediata produce sul processo, sempre in divenire, della costruzione identitaria ed analizza le nuove forme di socializzazione, non accetta la distinzione tra “reale” e “virtuale”, proponendo piuttosto quella tra “fisico” e “digitale”. L’interazione “virtuale”, infatti, aggettivo che nella sua radice etimologica rinvia a ciò che è in potenza, non è meno “vera” sul piano cognitivo, affettivo ed emotivo rispetto agli impatti prodotti dalle relazioni dirette. Da qui la necessità di un’educazione perenne di giovani e meno giovani anche a questo tipo di comunicazione, se desideriamo mantenere un costruttivo benessere relazionale. Occorrerebbe anche un investimento in termini teorici nel riformulare i tradizionali modelli di intervento delle professioni sociali, educative e psicologiche, per fornire strumenti di lettura della realtà più complessi e maggiormente aderenti all’attualità, capaci di aprire brecce di comprensione e di promuovere concrete azioni di aiuto volte a contrastare le nuove forme di dipendenza come le nuove problematiche affettive e relazionali poste dall’uso massiccio dell’interazione mediata dalle tecnologie.
Su questo ambito abbiamo ancora tanto da imparare.
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