di Maria Pia Fontana
Prende spunto dalla nota parabola dei lavoratori della vigna, tratta dal Vangelo secondo Matteo (20, 1-16) il titolo dell’ultimo film di Massimiliano Bruno, “Gli ultimi saranno gli ultimi”, che racconta in parallelo due storie “di vinti”, esclusi dalla vita e dalla società: quella di Luciana e di suo marito Stefano (Paola Cortellesi e Alessandro Gassman) e quella di Antonio (Fabrizio Bentivoglio).
E’ difficile comprendere il significato del film se non si ha almeno una conoscenza di massima di questa parabola, che è tra quelle più scandalose per la razionalità umana, in quanto trasgredisce la logica economica e retributiva alla quale ricorriamo per valutare l’azione. Nel racconto dell’evangelista Matteo, infatti, tutti gli operai, anche quelli che il padrone ha assunto tardivamente sul finire della giornata, ricevono il medesimo compenso e ciò desta le rimostranze dei lavoratori che hanno lavorato sin dalle prime ore del mattino, che si sentono trattati ingiustamente. Il senso del messaggio è che il “salario” che elargisce Dio (la grazia) non si misura in denaro e non dipende meccanicamente dal nostro “fare”, persino se è un fare buono, ma discende dalla misericordia divina che non è riconducibile esclusivamente alla volontà e alla condotta dell’uomo. Secondo la fede cristiana, quindi, Dio non guarda solo il prodotto e neppure solo l’agito, guarda piuttosto il cuore e l’interiorità di ogni persona. Non ci sarebbero quindi diritti di prelazione per il regno dei cieli ed è per questo che la parabola si chiude con la frase “Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi”.
Chi contesta la grazia benevola che elargisce Dio anche verso chi decide tardivamente o sul finire della propria vita di lavorare nella sua vigna, si pone fuori da questo amore paterno e resta prigioniero delle logiche retributive umane. Va appena notato che queste logiche premiali sono le stesse che regolano la punizione, perché tutto il sistema della giustizia umana poggia sulla “giusta remunerazione”. Anche per la sanzione, infatti, nel nostro sistema penale prevalgono logiche di tipo retributivo: si è puniti e si subisce un’afflizione in modo proporzionato al male commesso: tanto male fai, tanto male ricevi.
Questo impegnativo riferimento alle sacre scritture viene quindi richiamato, sebbene in forma ribaltata, dal titolo del film, che trasferisce sul grande schermo un’opera teatrale già interpretata dalla Cortellesi, la quale si conferma capace di utilizzare sia il registro comico che quello drammatico.
Entrambe le vicende umane raccontate sono ambientate in un piccolo centro di provincia laziale, Anguillara. La prima storia, che, attraverso Luciana sembrerebbe trainare tutto il film, riguarda un’operaia in servizio presso una fabbrica di parrucche. La donna, dopo aver aiutato una giovane disoccupata ad essere assunta, viene “tradita” dalla collega che, per assicurarsi la stabilità del proprio posto di lavoro, rivela ai datori di lavoro lo stato di gravidanza di Luciana, in una sorta di guerra tra poveri in cui solo affilando le unghie e sgomitando gli altri si può sperare di sopravvivere, se non di vincere. Luciana, quindi, viene licenziata e precipita in una grave crisi esistenziale ed economica in quanto era l’unica a provvedere alle proprie necessità familiari. Il marito, infatti, abituato a vivere alle sue spalle e a crogiolarsi in una dimensione eternamente goliardica e spensierata, considera una vergogna andare “sotto padrone” e, per ovviare alla mancanza di reddito, si impelaga in “affari” che, nei fatti, contribuiscono ulteriormente ad aggravare la già precaria situazione economica della coppia, esposta alla tensione dell’imminente nascita del bambino. La vicenda precipita per il concatenarsi di eventi critici che avviano un’escalation di emotività, fino a quando Luciana “esplode” in modo plateale e pericoloso.
Meno scontata, ma anche meno approfondita, è la storia di Antonio, un poliziotto costretto a cambiare città perché ingiustamente accusato del tragico incidente di un giovane collega morto durante un’azione di servizio. Mosso dalla solitudine e dal bisogno di affetto, Antonio ricerca un legame con una parrucchiera esuberante, per poi rimanere deluso e turbato dalla scoperta che la donna è in realtà un uomo.
Se è chiaro perché Luciana e Stefano rientrano nella categoria degli “ultimi”, in quanto la loro marginalità si collega in modo evidente alla precarietà e alla debolezza economica, sebbene questa condizione sia vissuta da loro con una certa rassegnazione, meno evidente è il motivo dell’emarginazione di Antonio: discende dalla sua eccessiva bontà e correttezza nel seguire le procedure di lavoro o dall’imperizia e imprudenza dimostrata nell’esercizio della sua funzione, oppure ancora dipende dalla cattiveria e dalle menzogne degli altri che gratuitamente infieriscono su di lui? Fatto sta che ci perderemo Antonio strada facendo, nel senso che resta vago l’epilogo della sua vicenda umana: presumibilmente egli dismetterà la divisa, ma non sapremo altro di lui.
La figura di Luciana fornisce una tipizzazione efficace di un modello di femminilità socialmente diffuso e resistente a fronte dell’evoluzione sociale e culturale. La protagonista infatti è resa una vittima non solo dalla stringente situazione economica di crisi, che paga sulla sua pelle perdendo l’impiego, ma proprio in quanto donna: la maternità, quindi, da aspirazione individuale diventa una “colpa” da nascondere e da tacere almeno fino a quando il suo contratto di lavoro non sarà rinnovato. Ma gli aguzzini di Luciana non sono solo i suoi datori di lavoro. Lo è anche il marito, la cui congenita immaturità si traduce in un’arma letale per Luciana allo stesso modo in cui potrebbe esserle fatale subire una violenza fisica.
Eppure solo in una scena assistiamo alla presa di coscienza di Luciana sulla intollerabilità di sostenere da sola l’onere di mantenere la famiglia. Ad eccezione di questo unico moto di ribellione, sembrerebbe che prevalga in lei una tacita accettazione del modello maschile dell’eterno Peter Pan, molto di moda in questi tempi. In modo abbastanza efficace il regista riesce comunque a tratteggiare l’effetto logorante che la crisi e la precarietà economica esercitano sul rapporto affettivo di coppia.
Mentre la trama si sviluppa secondo gli snodi accennati, si sottopone a satira il messaggio evangelico attraverso l’espediente dei fili elettrici che, oltre a veicolare le loro pericolose radiazioni, amplificano l’audio delle omelie liturgiche della chiesa di quartiere, attraverso canali fantasiosi e forse anche poco decorosi (si sente la messa persino attraverso il water). Ciò contribuisce a squalificare e a deridere la portata simbolica del messaggio evangelico, senza che, peraltro, il riferimento alla predetta parabola di Matteo venga sviluppato con un riferimento al suo significato spirituale.
L’epilogo del film avvolge nell’ambiguità il debole lieto fine della storia di Luciana e Stefano: fugati gli effetti nefasti dell’esasperazione della donna, malgrado la sua proclamata volontà di reagire agli scossoni della vita e l’avvio di una nuova attività lavorativa da parte di Stefano, si ripropone allo spettatore il messaggio che da il titolo al film: “Nostro Signore ha detto che gli ultimi saranno i primi, ma non ha detto quando”.
Il fatto che la giustizia di Dio segua registri diversi rispetto a quella umana, non vuol dire che il Vangelo condanni all’immobilità e alla passiva accettazione delle ingiustizie sociali nell’attesa di una panacea divina o nella speranza che si faccia giustizia nell’oltretomba. Se Cristo entra nella storia vuol dire che crede in un’umanità capace di adoperarsi nel qui e ora per creare un mondo migliore e non bisogna limitarsi a confidare nell’aldilà.
Il film sembra lontano non solo dalla fede cristiana, ma anche dalla fede laica nei principi della nostra Costituzione, dimenticati o fraintesi sia dalla politica che dai cittadini. In base all’art. 36 Cost. il lavoro non dovrebbe essere remunerato solo in relazione alla quantità e qualità dell’opera prestata, ma anche in base alla sua capacità di assicurare al lavoratore e alla lavoratrice, nonché alle loro famiglie, “un’esistenza libera e dignitosa”.
E senza la speranza che la grande rivoluzione promessa e disattesa dal Novecento, cioè la rivoluzione dell’uguaglianza di opportunità tra tutti i cittadini (ex. art. 3) possa e debba ancora essere realizzata, come si potrà evitare che l’ultimo resti ultimo? Anzi, in un mondo sempre più appiattito sulle logiche del profitto e del mercato, la distanza tra i primi e gli ultimi della scala sociale è destinata inevitabilmente a crescere sempre di più.
E a poco gioverà ironizzare sulla chiesa, se la denuncia sociale non riesce ad alimentare la speranza che valga ancora la pena adoperarsi per trovare un’alternativa.
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Una recensione così bella,strutturata e articolata com’è in tanti dettagli e in tanti ” ingrandimenti” delle storie esistenziali e morali che contiene,potrebbe anche bastare a chi come me non ha ancora visto il film e però può ampiamente coglierne il messaggio ( anzi i messaggi ) profondi che sono evidenziati.
Non mi soffermerò sulla forte efficacia con cui leggiamo sempre dall’autrice i valori intinseci e socialmente produttivi e utili della ripulsa al concetto di “retribuzione risarcitoria” che,soprattutto in ambito giuridico e penale, descrivi sempre con puntualità e rigore realistico.
E non mi soffermerò neppure sulla puntuale capacità di saper collegare il “messaggio” del film con il messaggio evengelico di Matteo ( che fa il paio con quello di Luca per altra caratteristica dello stessa natura escatologica di esso ) , con quella meravigliosa grandiosa semplicità del Vangelo,nella sua radicalità,nel suo capovolgimento del mondo per rifarsi alle “radici”; dell’Uomo e della Verità, e della valenza dell’operare legata al “cuore” dell’Uomo,alla sua autenticità profonda ,che prescinde da ogni calcolo di “utilità” esteriore a se stessi.
Mi preme innvece in questa sede,e in attesa di poter vedere il film e continuare la profonda riflessione che la recensione evoca,rimarcare il nesso inscindibile con l’altro aspetto di “religiosità civile” che la recensione magificamente evidenzia,con lo splendiso cammeo che essa contiene del richiamo alla Costituzione. cammeo prezioso perchè sa evidenziare ( come raramente avviene) non l’aspetto meramente formale del “diritto” di ogni uomo,bensì quella natura propia ed esclusiva della nostra Carta suprema, di indicazione di un compito sociale “radicale” nella sostanza di svolgimento perpetuo , al di là tempi politici o storici contingenti, di un “programma” civile che possa dare la risposta all’angosciosa domanda del ” quando ?”; una risspota possibile all’uomo di oggi così confuso e orfano di punti di riferimento certi ,sociali ed esistenziali.Una speranza possibile di ribaltare la storia e di trovare nella propria dimensione umana la primazia dell’essere e non dell’avere.