Cosa resta dei ragazzi di vita. Tra vecchi e nuovi fattori di disagio

Di Maria Pia Fontana

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“Non c’è stata in loro una scelta tra bene e male: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà”.

Pier Paolo Pasolini
Corriere della sera,
18 ottobre 1975


E’ il 1955 quando Pier Paolo Pasolini pubblica Ragazzi di vita in un clima sociale caratterizzato dalla ripresa economica dopo le ferite della seconda guerra mondiale. Nel romanzo, che comportò per lo scrittore un processo per oscenità poi conclusosi con l’assoluzione, perché per la prima volta veniva affrontato il tema scabroso della prostituzione minorile maschile, Pasolini racconta la miseria del sottoproletariato romano e gli espedienti di un gruppo di adolescenti privi di punti di riferimento educativi. Questi giovani, soprattutto attraverso uno dei protagonisti, Riccetto, diventano quindi metafora della parabola discendente di una generazione. La vicenda infatti ci mostra come il ragazzo, contaminato dai nuovi modelli di condotta individualistici e dai valori del nascente consumismo borghese, perda progressivamente la sua originaria purezza e generosità. Se l’opera rappresenta lo spaccato di un’epoca segnata da grandi cambiamenti sociali, e racconta le vampate e i fermenti di una gioventù inquieta che brucia la vita per l’eccesso di vita e di esperienze, viene da chiedersi cosa resta di questi ragazzi nella nostra società globalizzata e iper-tecnologica e quali sono le analogie e le differenze tra gli adolescenti di oggi e quelli di sessanta anni fa.

Nonostante il lungo arco temporale tra l’opera di Pasolini e i giorni nostri, possiamo identificare qualche aspetto di continuità nell’universo giovanile come ad esempio la ricerca di forme di aggregazione tra pari e la forza del gruppo come laboratorio identitario e di sperimentazione del sé, anche attraverso azioni devianti; l’incapacità per molti ragazzi di poter fare affidamento sulle istituzioni tradizionali come la famiglia e la scuola e, infine, la voglia di vivere di espedienti e di accumulare esperienze al limite.
Oggi, tuttavia, il disagio che attraversa i giovani presenta volti differenti e un maggiore livello di complessità. Accanto alla deprivazione materiale e culturale, ben descritta da Pasolini e che purtroppo continua a produrre forme di devianza e di marginalità, si profilano infatti le nuove tipologie di disagio dei figli del post-capitalismo e del benessere. Si tratta dei giovani cresciuti all’interno delle famiglie disgregate, a seguito delle sempre più ricorrenti separazioni coniugali, oppure di coloro che non sono riusciti ad apprendere chiare norme di condotta perché eccessivamente protetti e gratificati da chi aveva compiti di cura (c.d. famiglie affettive) non solo perché il padre, anche a seguito di separazione e/o divorzio, spesso è periferico nell’esercizio dei suoi compiti educativi, ma perché è mutata la sua tradizionale funzione. La mancata sperimentazione della funzione paterna del limite si riflette quindi nell’incapacità dei giovani di apprendere quei “No che aiutano a crescere[1], che, nei fatti, sono gli stessi No che lo stesso educatore deve essere in grado prima di tutti di rispettare. Al padre oggi non si chiede di imporre la legge, essendo da tempo tramontata la figura del padre padrone o del padre autoritario, quanto di dimostrare che è possibile sottrarsi all’obbligo del successo, della bellezza, della perfezione a tutti i costi e dell’accumulo compulsivo di beni di consumo, dimostrando con i fatti, e non con le parole, che l’esistenza ha un senso, che il futuro può essere ancora desiderabile e che, infine, si può vivere integrando responsabilità e libertà, regola e desiderio, norma ed emozione[2]foto1132-300x200
Le ricerche criminologiche evidenziano che se da un lato diminuisce il numero dei minori reclusi, dall’altro crescono le denunce per reati contro il patrimonio, contro la persona e connessi all’uso e alla detenzione di sostante stupefacenti e che alla base delle condotte delinquenziali vi è spesso un percorso scolastico accidentato e una progressiva disaffezione dei ragazzi dai contesti formativi, percepiti come respingenti ed espulsivi. Molti dei giovani che fuoriescono dai percorsi scolastici approdano frequentemente ad esperienze di lavoro precoce e poco garantite che accentuano il senso di ingiustizia e di frustrazione nei confronti degli adulti e della società.
La popolazione giovanile è inoltre segnata da una maggiore eterogeneità culturale per l’irrompere sulla scena italiana dei ragazzi stranieri, non solo quelli che approdano da soli nel nostro paese ma anche dei giovani immigrati di seconda generazione, impegnati nel difficile compito di definire un’identità sospesa tra le proprie origini etniche e la nuova cultura.
Sia i ragazzi che rientrano nella tipologia più tradizionale della povertà economica e culturale, che i giovani che esprimono un disagio anche all’interno di una cornice di benessere economico, sono accomunati dal fatto di essere tutti figli delle nuove tecnologie, nativi digitali (secondo un’espressione coniata da Marc Prensky nel 2001) anche se ciò non vuol dire automaticamente che i ragazzi siano consapevoli dei rischi e delle potenzialità della rete e neppure che siano realmente dotati di competenze informatiche. E tale mancanza di consapevolezza discende dal fatto che l’uso dei media avviene in modo spontaneo senza che sia necessario un particolare sforzo per apprendere i protocolli della rete o i meccanismi di funzionamento dei software e dell’hardware. Oggi, molti giovani accedono ad internet quasi esclusivamente attraverso i social network, ma quasi nessuno percepisce che la massiccia immissione di informazioni personali avviene all’interno di recinti chiusi e ambienti di cui non hanno la proprietà. Quindi, se un tempo la strada e il quartiere erano il teatro delle esperienze giovanili, oggi le rivoluzioni introdotte dal web 2.0 e il moltiplicarsi di ambienti digitali hanno inciso profondamente sui processi di costruzione identitaria, sulle forme di interazione e sulla ridefinizione delle appartenenze territoriali. Sebbene ancora permanga un sensibile digital divide (dovuto più a fattori anagrafici che socio-economici) possiamo dire che le forme di socializzazione on line sono tendenzialmente universali nella popolazione adolescenziale mondiale e, nei fatti, accomunano un giovane catanese con un cinese o con un ragazzo africano. In questo senso l’analisi dei profili con cui gli adolescenti presentano la propria identità sui social network può essere un utile strumento di conoscenza del loro mondo, delle mode, dei linguaggi e dei miti che pervadono la loro cultura. Nonostante il potenziale delle nuove tecnologie per la circolazione e condivisione di informazioni e per la creazione di reti, l’uso massiccio di internet e dei social network comporta anche dei rischi da non sottovalutare e che possono tradursi in fattori di disagio. Tra questi possono evidenziarsi  l’emersione di nuove forme di devianza (es. sexting, furto e manipolazioni di dati, violazioni della privacy, phishing, furto di identità, cyberbullismo) e la progressiva scomparsa del senso del pudore a fronte di una sempre più massiccia ostentazione di sé, anche come conseguenza della perdita del confine tra pubblico e privato. Inoltre la co-presenza simultanea tra mondi fisici e virtuali (c.d. presenti paralleli) influenza le capacità di concentrazione e di approfondimento[3]1411642410_teen1-600x335
Accanto a questa evidente caratterizzazione della popolazione giovanile, dovuta all’irrompere della comunicazione e della socialità mediata dalle tecnologie, molti ragazzi sembrano oggi attraversati  da una pulsionalità che frequentemente non diventa desiderio né consapevolezza emotiva. Come è noto, le  trasformazioni ormonali proprie dell’adolescenza in ogni epoca storica hanno indotto i giovani a ricercare emozioni forti, tanto che una delle più belle definizioni della gioventù è contenuta nel Salmo n. 127 che recita “Come frecce in mano ad un eroe sono i figli della giovinezza”. E non di rado gli adulti hanno sfruttato questa dirompente passionalità ai loro fini. A tal proposito F. Catalluccio, ricordando J.Romains, evidenzia come “senza l’estrema giovinezza dei combattenti della Prima Guerra mondiale (…) carneficine come la battaglia di Verdun (circa 700.000 morti) non sarebbero state possibili[4]”. Ma lo scenario in cui oggi i ragazzi consumano la loro voglia di imprimere un’accelerazione alla vita, non è quello dell’utopia, della ricerca di un ideale o di altri mondi possibili, anche attraverso la contestazione delle ingiustizie dello status quo (come fecero i movimenti studenteschi degli anni ’70) quanto piuttosto quello del ripiegamento narcisistico di sé e della rincorsa ad un’emozionalità fine a sé stessa, svilita a semplice botta di adrenalina. Ciò si evidenzia ad esempio nella pratica delle condotte a rischio, nell’uso delle sostanze stupefacenti o nella precocità e frequenza dei rapporti sessuali. In ciò i ragazzi risentono del clima culturale del nostro tempo, che esalta l’individualismo esasperato, il narcisismo, il culto dell’immagine ever green, la ricerca disinibita della sessualità come indice di potere e di successo e la strumentalizzazione dell’altro che diviene degno di interesse solo se funzionale al proprio godimento e capace di produrre effetti eccitanti. tumblr_njk3pncvwl1tahw9io1_500
Peraltro, questa incapacità di modulare e di gestire le emozioni, incluse quelle spiacevoli, non sta solo alla base della ricerca  compulsiva di paradisi artificiali o di un eterno godimento, ma anche dell’aggressività eterodiretta o autolesionistica (es. fenomeno del cutting, che consiste nel tagliarsi la pelle) come richiesta di aiuto e come estremo urlo di rabbia che dà sollievo all’ansia e all’angoscia che deriva da un sopruso o una delusione.

Infine, un tratto distintivo degli adolescenti del terzo millennio discende dal diverso rapporto verso la dimensione temporale, con un enfasi sul presente a cui si accompagna un azzeramento della memoria e conseguentemente anche l’incapacità di prefigurare il futuro. I ragazzi attingono a frammenti del passato soprattutto tramite i media, che non mediano solo la realtà e le relazioni, ma anche la nostra storia. Sebbene l’accesso al mondo plurigenerazionale della cultura e dell’esempio civile possa colmare la miseria e la scarsità di maestri del nostro tempo, spetta sempre all’adulto, capace di presenza affettiva e di cura, la responsabilità di offrire le traiettorie per orientarsi nella ricerca di modelli e per rendere coerente il racconto storico, nonché la responsabilità di passare il testimone della cultura, incentivando una continuità creativa tra le generazioni e sostenendo un’idea desiderabile di futuro.

Ogni periodo storico ha conosciuto le inquietudini della gioventù e talvolta queste inquietudini hanno favorito il progresso e il rinnovamento culturale, mentre altre volte hanno solo avuto l’effetto di fare dei giovani le vittime sacrificali delle contraddizioni sociali e delle incapacità degli adulti di dare ascolto alle loro tensioni e alla loro ansia di cambiamento. Ogni epoca ha quindi avuto i suoi ragazzi di vita, che correvano troppo veloci e che velocemente bruciavano esperienze e relazioni, talvolta per inseguire sogni e opportunità, altre volte perché risucchiati nel vortice di una mancanza.
Sebbene chiaramente non tutti i giovani di oggi brucino la loro vita e molti anzi siano in grado di alimentarla attraverso un impegno generoso e disinteressato nel volontariato, nell’azione politica e nella crescita culturale e sociale, i ragazzi che portano impressa nel loro animo l’ombra del disagio sembrano aver perso l’orizzonte, una meta capace di dare sapore ai loro sforzi e si crogiolano nella palude di un nichilismo sempre più strisciante[5]. Abituati ad avere tutto, ad eccezione della speranza di un mondo migliore e di un proprio posto nel mondo, rincorrono la vita o si ritirano dalla vita con il medesimo risultato di consumarla inutilmente. Basti pensare che circa il 26% dei giovani under 30 rientra nella categoria dei Neet (Non in education, employment or training) sospesi in una terra di mezzo che impedisce il debutto nel mondo e l’esercizio della cittadinanza, in quanto vi confluiscono i ragazzi esclusi sia dai percorsi formativi come dalle  esperienze di lavoro[6]. Chiaramente questi giovani sono la cartina di tornasole di una crisi più ampia che non riguarda solo loro e che include la generale recessione economica, la progressiva perdita di posti di lavoro e le carenze dei sistemi formativi ed educativi. E tuttavia non ci sono soluzioni per questi ragazzi che inceneriscono e sprecano i loro giorni, scivolando nel tedium vitae o manifestando forme di dipendenza o di devianza, se non quella di riprendere e di potenziare gli investimenti in opportunità educative, sia come azione privata che come precisa strategia politica.
Occorre quindi accompagnarli nell’inevitabile fatica di crescere aiutandoli nell’affrontare le contraddizioni e le ansie del nostro tempo, per fare in modo che anche i ragazzi di vita possano immettersi nel ciclo della vita buona e bella e della speranza che sempre ha attraversato e unito le generazioni.



Nota dell’autrice:
Il presente articolo è apparso per la prima volta nella raccolta Unicum – dicembre 2015 della rivista on line Nuove Edizioni Bohémien. Quest’ultima versione presenta qualche aggiornamento e modifica.

[1] Asha Phillips, I no che aiutano a crescere, ed. Feltrinelli, 1999
[2] Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Ed. Feltrinelli, 2013
[3] Giammaria Ottolini e Pier Cesare Rivoltella (a cura di) Il tunnel e il Kayak, teoria e metodo della peer & media education, Ed Franco Angeli, 2014
[4] Francesco Catalluccio, Immaturità, la malattia del nostro tempo, ed. Einaudi, 2014, pag. 73
[5] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ed Feltrinelli, 2007

[6] Andrea Marchesi, “Si può rompere l’incantesimo del NEET? Esplorazioni, problemi aperti, varchi per il futuro”, in Animazione Sociale n. 293 – 2015

 

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Scritto daMaria Pia Fontana

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