Di Maria Pia Fontana
Il libro La Condizione Giovanile in italia. Rapporto Giovani 2016, edizioni Il Mulino, frutto della ricerca realizzata dall’Istituto Giuseppe Toniolo di Milano con Ipsos, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo e di Intesa S.Paolo, offre un’interessante fotografia della situazione della popolazione giovanile nel nostro paese, e, per la prima volta, la rilevazione, che è la terza in ordine cronologico di cui l’Istituto si fa promotore, mette a confronto il target italiano con quello di altre nazioni europee come la Germania, La Francia, il Regno Unito e la Spagna. Lo studio si pone, quindi, anche una finalità di comparazione tra diversi paesi europei dando alla ricerca un’apertura internazionale che, se da un lato si presta ad identificare meglio alcune specificità del “caso italiano”, dall’altro rende l’analisi più aderente alle tendenze di mobilità economica e culturale che interessano i cittadini under 33 dell’Unione, cioè la Millennials generation. Un altro merito della rilevazione è il suo carattere longitudinale che consente di seguire l’evoluzione della popolazione giovanile in un arco temporale triennale. Il campione originario degli intervistati contattati nel 2012 è stato rinnovato nel 2015, ai fini del rapporto 2016, e conta novemila ragazzi dall’età compresa tra i 18 e i 33. Le aree indagate riguardano la scuola, il lavoro, il rapporto con la famiglia, le scelte procreative, il servizio civile, l’immigrazione, la fruizione dei media e le abitudini di consumo collaborativo. Ne emerge un quadro fluido con evidenti segnali di preoccupazione, sebbene sia presente anche qualche elemento di positività, ad esempio in relazione al dinamismo giovanile connesso all’attitudine allo spostamento per motivi di studio e di lavoro o alla buona rappresentazione della famiglia sia come luogo di trasmissione dei valori e come fondamentale strumento di mediazione sociale, che come sede dell’affettività e della libera espressività della persona. Restano tuttavia in ombra alcune funzioni genitoriali nevralgiche, come ad esempio la capacità di trasmettere il senso delle regole che consentono la vita comune.
Complessivamente, la visione di insieme che se ne ricava è quella di un bacino di energie, talenti e potenzialità giovanili compresso non solo dalla congiuntura economica negativa, ma anche da politiche sociali dal fiato corto, prive di visione prospettica e di generosità nella dinamica intergenerazionale. Lo studio ha lo scopo di offrire un’istantanea del presente e chiama in causa il lettore (educatore, operatore o studioso) nell’interpretare i dati emersi per trovare chiavi di lettura sulle criticità emerse. Inevitabile è scorgere le responsabilità degli adulti nel frenare la crescita culturale, economica ed etica del nostro paese, anche per l’incapacità di valorizzare adeguatamente il capitale umano giovanile, unica realistica speranza di un futuro migliore.
L’elemento più preoccupante appare il calo demografico, in quanto l’Italia è il paese con minori giovani sotto i 30 anni e se tale trend non dovesse essere modificato saremmo costretti a rimanere una delle nazioni con il più altro tasso di invecchiamento della popolazione. A questo dato purtroppo si aggiunge la mancanza di investimenti e di politiche sociali specifiche, considerato che l’Italia è una delle principali fabbriche europee di NEET ( Not (engaged) in Education, Employment or Training).
Sono infatti circa 3,5 milioni i ragazzi che non studiano o che non lavorano (circa uno su quattro). Solo la Grecia mostra dei valori superiori a quelli italiani. A fronte di questo esercito di giovani che sguazzano nel mare del disimpegno e della frustrazione, programmi nazionali come Garanzia Giovani sono riusciti a fornire una concreta possibilità di studio o di lavoro solo a meno di un neet su dieci, con risultati che hanno ampiamente deluso le aspettative iniziali.
Alta rimane anche l’incidenza della povertà delle famiglie con figli minori e con genitori under 35 e non si è nelle condizioni di prevedere se le misure di aiuto sociale ed economico previste dal nuovo Piano di Sostegno Inclusione Attiva (SIA) la cui concreta attuazione si presenta peraltro molto problematica all’interno dei vari ambiti territoriali, potranno migliorare nei fatti le condizioni di vita della popolazione minorile.
A questi dati vanno aggiunte l’elevata incidenza dell’abbandono scolastico dopo la licenza media (cosidetti ESL- Early school leavers) che si aggira al 15 % contro l’11% media Ue28, ma nel Mezzoggiorno supera il 19 %, con una maggiore presenza degli uomini rispetto alle donne. Significative sono anche le basse percentuali dei laureati (22,4% contro i 36,9% della media UE) pur con sensibili differenze di genere, in quanto le donne italiane distanziano i loro connazionali maschi di otre 10 punti percentuale.
Tra le motivazioni dell’abbandono della scuola il primo posto è occupato dalla scarsa attitudine verso lo studio e dalla sfiducia sulle effettive possibilità di lavoro fornite dalla formazione, ma queste valutazioni sono più diffuse tra i maschi che non tra le studentesse, per le quali sono invece ricorrenti le motivazioni connesse anche a fattori di carattere relazionale. L’esperienza scolastica rileva pure per lo sviluppo del senso di giustizia, connesso non solo all’osservazione di episodi di bullismo e di devianza in generale, ma anche allo stile di relazione dei docenti verso gli allievi e alla loro percezione di essere o meno trattati con imparzialità. “Solo continuando ad investire nella crescita della qualità complessiva e dell’equità del sistema i giovani potranno recuperare fiducia nel valore dell’istruzione come fattore di empowerment e di sviluppo della persona e della società” (pag. 52).
La ricerca evidenzia molto bene come nel bel paese tutte le tappe di transizione verso l’età adulta e lo svincolo dalla famiglia d’origine (ottenimento di un lavoro, autonomia abitativa e formazione di una propria famiglia) sono posticipate per i nostri ragazzi rispetto ai loro coetanei europei. L’età media di uscita dalla famiglia di origine è di 30 anni mentre nel Nord Europa, ma anche in Francia, in Germania e nel Regno Unito è di 25 anni.
Inoltre, il tasso di fecondità sotto i 30 anni è inferiore al 40% , il più basso in Europa. L’età mediana al primo figlio è cresciuta dai 23,8 anni per le donne nate nel 1950, ai 29,8 per le donne nate nel 1970, fino ad arrivare a 32,1 anni per le donne che hanno messo al mondo il loro primo figlio nel 2014. Il fatto che si sia progressivamente spostata in avanti l’età della procreazione riduce il tempo complessivo disponibile per la cura e la crescita dei nuovi nati, aumentando il rischio di rimanere senza figli per il resto della vita o riducendo le possibilità di altre gravidanze.
Va comunque evidenziato che esiste in Italia uno scollamento tra le intenzioni di fecondità (o il numero di figli desiderati) e la loro realizzazione, connesso anche alla forte precarietà lavorativa e alle carenti politiche di welfare a sostegno della famiglia.
Fa da corollario a questi dati anche l’alta percentuale di giovani Expat, cioè i ragazzi under 35 che cercano opportunità di studio e lavoro oltre i confini della nostra nazione. L’83,4% degli intervistati è disponibile a trasferirsi per lavoro, il 61% anche all’estero, ed è una percentuale che batte quelle dei coetanei di Spagna, Francia, Regno Unito e Germania. Osserviamo anche un saldo negativo tra i soggetti che decidono di andare all’estero e quelli che riescono a tornare dopo un’esperienza di lavoro.
In modo approfondito la ricerca esplora anche le percezioni e le informazioni giovanili sul tema dell’immigrazione. I risultati evidenziano una generalizzata scarsa conoscenza delle dimensioni e delle reali caratteristiche del fenomeno tra gli intervistati e ciò predispone il terreno a forme di ostilità verso gli stranieri, a pregiudizi etnici, a paure infondate, atteggiamenti che sono rinforzati sia da un clima internazionale surriscaldato a causa degli episodi terroristici che da “un dibattito pubblico involuto ed allarmistico”.
Un’altra dimensione oggetto di analisi riguarda la rappresentazione del Servizio civile, inteso come strumento di promozione della solidarietà, di impegno civico e di competenze di cittadinanza ma anche come ammortizzatore sociale in assenza di esperienze di lavoro remunerato, specie per i giovani che rientrano nella categoria dei neet. Infine, tra i temi di ricerca più attuali si segnala l’attenzione ai consumi culturali e il rapporto con le nuove tecnologie, ambito che avrebbe meritato qualche approfondimento, nonché alle prassi di sharing economy in relazione alla costruzione di nuove comunità di produzione e di consumo basate su logiche di condivisione e di reciprocità.
Se compito della ricerca resta fotografare la situazione, il passo successivo è trovare le strategie per superare le criticità liberando i talenti di questa gioventù che rischia di pagare i costi più alti della crisi in termini di realizzazione personale e di opportunità negate. Come significativamente si evidenzia, i giovani di oggi sembrerebbero essere più nativi della crisi che nativi digitali (pag. 232). Occorre quindi ritornare alla radice del patto educativo e fiduciario che lega le generazioni come nodo nevralgico del progresso umano e sociale di tutti, giovani e meno giovani, risalendo alle cause che hanno inceppato il processo di trasmissione ereditaria (di beni, di valori, di speranze e di opportunità) tra “genitori” e “figli”.
Da sempre i modelli di relazione tra le generazioni sono stati caratterizzati da conflitto o da competizione e in questo senso la mitologia classica ci offre figure emblematiche di tale dissidio. La concordia o l’alleanza tra le generazioni con l’obiettivo del bene comune non è affatto una cosa scontata. Al momento sembrerebbe che il conflitto si sia sedato o sia stato rimosso non per la ricerca o la conquista dell’armonia, ma anche per la tacita acquiescenza delle nuove leve, depotenziate della carica di contestazione e di ribellione che ha animato generazioni precedenti di giovani. Oggi padri e figli sembrano accumunati da un giovanilismo omologante funzionale ai primi per non cedere il passo (e lo status di potere acquisito) e ai secondi per mantenersi nella moratoria di una comoda dipendenza sempre più a lungo. Il passaggio verso l’alleanza tra le generazioni significa invece fare delle reciproche diversità e funzioni la risorsa che traina tutti verso un progresso reale e percorribile.
E se è vero, come scriveva Edgar Lee Masters, che il genio è unione di saggezza e gioventù, capacità di visione e slancio passionale, possiamo dire che questa alleanza ha sia una dimensione interiore che una dimensione relazionale, ed è l’unica che tiene desta la vitalità personale come anche quella del corpo sociale. Occorrono una buona dose di genialità diffusa e un’effettiva condivisione di obiettivi e strategie tra tutte le fasce della popolazione per traghettarci fuori dalla crisi.
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