a cura di Maria Pia Fontana
Considerato, tuttavia, che tali standard restano quasi sempre preclusi ed irraggiungibili per molti, e che il processo di autoaffermazione viene attribuito all’esclusiva responsabilità del singolo, trascurando il ruolo castrante o inibente delle variabili di contesto, anche perché la doxa dominante concepisce il fallimento esistenziale solo come devianza o psicopatologia, la depressione diviene un approdo quasi obbligato. Ecco perché pur nel patinato mondo delle declamate felicità prêt-à-porter e della fiaba del self made man che scala la piramide sociale suggellando i valori dell’avere e dell’apparire, dilagano i casi di malessere che sfociano nel disagio psicologico e nella psicoterapia. Le riflessioni proposte non nascono quindi dalla speculazione astratta sul processo di individualizzazione, né interrogano in termini meramente filosofici il compito di realizzare la propria identità, ma piuttosto traggono spunto dall’esigenza pratica di offrire aiuto a chi patisce il dramma annunciato di non riuscire ad aderire ai prescritti copioni esistenziali. I vari autori del saggio fanno quindi emergere delle regolarità sociali nella diffusa sofferenza psicologica e nelle dilaganti depressioni del nostro tempo, evidenziando come esse non discendano solo dalle specificità biografiche e soggettive, ma trovino ancoraggio nelle pieghe di una pervasiva e spietata crisi socio-economica e nel modello ideologico neoliberista. “Ci muoviamo in uno spazio instabile – scrive S. Cavaleri – quello in cui sofferenze individuali e contraddizioni sociali vivono di continui rimandi. E’ uno spazio difficile da indagare: un approccio alla cura rischia di considerare inevitabili le crudeltà del mondo, mentre la sola analisi macroeconomica può rendere distratti di fronte alla sofferenza degli individui (pag. 37)” . Questa dimensione friabile in cui ci muoviamo, dove tutto è reso instabile e precario, dal lavoro agli affetti, dove la competizione sfrenata acuisce il conflitto sociale e dove tutta l’esistenza è asservita alle logiche del consumo e del mercato, assomiglia ad un grattacielo tremolante costruito con materiale di risulta. Non solo manca di fondamenta in grado di assicurare serenità e reale benessere (welfare) ai suoi abitanti, ma sorge sul macabro cimitero della politica, intesa come capacità di sortire insieme dai problemi, per usare un’espressione cara a Don Milani. Infatti, è ormai demandata al singolo la ricerca di vie di fuga dalla propria angoscia esistenziale, sia che si tratti di disoccupazione, sia che si tratti di malattia, precarietà o solitudine, senza che la generale sofferenza diventi oggetto di un’azione collettiva né occasione di mutua solidarietà. In questo scenario si comprende come sia inutile e sovrumana la fatica di essere sé stessi se si appiattisce sul diktat del modello culturale egemone ed asseconda le abnormi aspettative che gravano sul singolo, oppure se si scontra con le ingiunzioni e con i veti di una società che propugna l’autenticità, ma che nei fatti costringe verso forme di spietata omologazione.
Neppure chi sceglie il servizio al prossimo è esente dal rischio di essere inquinato e corrotto dalle logiche di mercato, come dimostra il romanzo I Buoni di Luca Rastello, richiamato da Cavalieri, che ben esemplifica i rischi di appiattimento sulle logiche del potere economico e politico anche di chi si auto-investe del compito di emendare la società dalle ingiustizie sociali. Le associazioni di volontariato e il vasto mondo del privato sociale conservano quindi al loro interno delle profonde contraddizioni e una di queste è data dall’affievolimento della spinta motivazionale o dalla burocraticizzazione della carica ideale, che può anche atrofizzarsi fino al punto di divenire strumento di un business. Non a caso Rastello fa dire ad uno dei protagonisti del suo disincantato romanzo “Abbiamo bisogno di convivere con il male, fingendo di combatterlo. Abbiamo bisogno di accettare un mondo inaccettabile che ci stritola, e abbiamo bisogno di abitarlo sotto anestesia”.
A libro chiuso mi tornano in mente tante storie di malessere personale che si intrecciano con il disagio di chi dovrebbe essere depositario della scienza e della tecnica di curare. Oggi la fatica di resistere alle pressioni del nostro tempo, coltivando nicchie di pensiero libero e ricercando modalità espressive e di realizzazione personale alternative, è divenuta la fatica quasi sovrumana che accomuna i professionisti dell’aiuto come gli aiutati. E in questo sconfinamento di ruoli, che demolisce ogni residuo piedistallo di presunzione dei cosiddetti esperti, forse potremmo trovare uno stimolo a considerarci autenticamente fratelli per ripartire a costruire la casa comune, mentre il lavoro di aiuto diviene sempre più un’impresa culturale volta ad aprire orizzonti di consapevolezza, di speranza e di pensiero alternativo mantenendo desta la lucidità.
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Non ho parole. Brava, brava, brava. Non sono riuscita a stamparlo perchè vorrei rileggerlo spesso. GRAZIEeeeeee…..