Le vicende storiche che fanno da sfondo alla commedia sono quelle che hanno travagliato la polis. Atene infatti ha appena vinto ad un prezzo altissimo la guerra contro Sparta nella battaglia delle isole Arginuse, per la quale vengono reclutati anche gli schiavi promettendo loro che, come “remunerazione” per il loro sacrificio, otterranno la libertà. La guerra si traduce però in un eccidio: sono circa 5000 i morti a causa dell’inettitudine e della mala fede degli strateghi i quali vengono condannati per alto tradimento nel corso di un processo sommario. Aristofane non fa cenno alle morti ingiuste dei soldati ma, nel coro della Parabasi delle Rane, mira piuttosto alla riabilitazione di coloro che sono stati condannati all’atimìa, cioè alla privazione dei diritti politici, all’insegna di una generale pacificazione tra le fazioni politiche contrapposte di “una città che ormai da troppo tempo beccheggia come una nave in tempesta”[1]. La commedia, quindi, dietro le risate suscitate dai motti di spirito e dalle battute brillanti, contiene un appello politico esplicito, “parla di politica e fa direttamente politica”[2].
La trama è semplice e riesce ad unire aspetti surreali e grotteschi con aspetti tragicomici.
Coro delle rane-cigni. Foto Carnera. Archivio Istituto Nazionale Dramma Antico
Dionisio, intento a leggere l’Andromeda di Euripide, mentre si trova a bordo di una delle navi della battaglia ateniese, viene colto dal desiderio incontenibile di scendere nell’Ade per riportare in vita l’autore dell’opera e per ridare lustro ad una città in declino che non può ormai vantare nessun grande poeta. Decide quindi di chiedere consigli sul tragitto ad Eracle, considerato un esperto del viaggio agli inferi in virtù della sua precedente impresa volta a recuperare il cane infernale Cerbero. Nel suo percorso verso il regno dei morti Dionisio non è solo, ma è accompagnato dal servo Santia, interpretati rispettivamente con disinvoltura e brio dagli attori Salvo Ficarra e Valentino Picone. I due personaggi si collocano specularmente in una dinamica relazionale dove aspetti di potere e di rivalsa reciproca vengono giocati ora ai danni dell’uno e ora ai danni dell’altro, complice una demistificazione impietosa della divinità di Dionisio, che arriva ad imbrattarsi con le sue feci per la troppa paura. Tra Dionisio e Santia, quindi, non vi è quella differenza di autorevolezza e di prestigio che il rapporto di servitù lascerebbe immaginare, anzi il ribaltamento dei ruoli, che Aristofane mette in scena in modo esilarante, quando Dionisio chiede al servo di indossare i suoi vestiti colto dal timore di essere picchiato da chi lo crede Eracle, contribuisce a mettere in ridicolo il dio come anche a fare emergere le istanze di vendetta del servitore per le angherie subite.
Foto di Salvo Ficarra e Valentino Picone – Archivio Fondazione I.N.D.A.
Il mondo dell’oltretomba viene descritto come incredibilmente simile a quello dei vivi: sono di più le anime dei malfattori che quelle delle persone oneste, ma soprattutto l’Ade ripropone una riedizione caricaturale dei litigi e delle contese per la leadership e per il potere, così tanto frequenti nella polis dei viventi. In particolare, competono gli spiriti di due grandi poeti defunti: Euripide ed Eschilo, che incarnato l’uno il genio artistico della modernità e l’altro la grandezza austera della tradizione. Il primo viene rappresentato come un’artista lascivo che mette in scena prostitute e drammi d’amore, il secondo come il cantore nobile e altisonante delle virtù civili. Quando Aristofane comincia a scrivere le Rane era da poco scomparso Euripide. La successiva morte di Sofocle, avvenuta con probabilità mentre l’opera era già in allestimento, induce l’autore ad inserire quest’ultimo poeta, che sarebbe stato il naturale competitor contemporaneo di Euripide, tra i personaggi della commedia, sebbene la sua figura rimanga marginale. Nei fatti, malgrado il viaggio di Dionisio cominci con lo scopo dichiarato di riportare in vita Euripide, Aristofane premia alla fine Eschilo, che, vinto il duello con il rivale, ritorna tra i vivi con la palma del Poeta-Salvatore della città in declino.
Singolare ed efficace risulta l’espediente di organizzare un agone poetico a suon di versi e di citazioni, in cui ciascun poeta prova a rintuzzare e a demolire l’altro, battaglia che culmina con l’originale e divertente “pesatura delle parole” attraverso una bilancia gigante che consente il confronto tra i due scrittori nell’atto di pronunciare i loro versi,
espediente che anche noi del ventunesimo secolo potremmo utilizzare con giovamento per soppesare la consistenza di tante frasi fatue o artificiose vendute come letteratura o verità. In particolare, Euripide rimprovera ad Eschilo di aver usato parole pompose, “pesanti come pachidermi”, parole incomprensibili e “montate a cavallo” che si inerpicano su “vette impervie”, mentre dal canto suo Eschilo rinfaccia ad Euripide di essere rimasto vittima delle stesse perversioni attribuite alle protagoniste delle sue opere, di aver rappresentato eroi dimessi e miseri e soprattutto di aver corrotto il pubblico mostrando il male insito negli amori incestuosi e colpevoli. Il contrasto tra i due stili poetici viene enfatizzato abilmente dalla regia che utilizza come espediente il ricorso alle maschere di cartapesta per simboleggiare la magniloquenza di Eschilo, che rinvia al teatro degli archetipi, degli dei e degli eroi, mentre si avvale delle sequenze filmiche di scene licenziose per evocare le opere di Euripide e il suo modo di intendere l’arte.
“Il poeta – dice Eschilo – ha il dovere di nascondere il male, non deve mostrarlo sulla scena o insegnarlo: perché se i fanciulli li educa il maestro, per gli adulti i maestri sono i poeti. Noi poeti dobbiamo parlare rigorosamente del bene”. Emerge in questa affermazione, che in parte riflette l’eterna tensione tra etica ed estetica, tutta la complessità ed attualità del quesito sul ruolo che spetta all’arte: deve riflettere il mondo con le sue passioni e contraddizioni, talvolta insolute o atroci, o deve avere una funzione edificante ed educativa che faccia comunque prevalere la dimensione etica, anche nel caso in cui scelga di far intravedere il male che abita nel cuore dell’uomo? Nelle Rane Aristofane propende decisamente a favore del ruolo pedagogico dell’arte tanto che Dionisio, incoraggiato da Plutone che assiste imperturbabile all’agone tra Eschilo ed Euripide, decide alla fine di salvare non il poeta più acuto o originale, ma quello più saggio e lungimirante e in grado di dare un consiglio pratico ad una città malata di corruzione e divisione dove manca un leader credibile sia in campo culturale che politico.
Tuttavia, la modernità di Aristofane, lo rende più simile ad un Euripide che ad un Eschilo e infatti le Rane non incoraggiarono il ritorno in auge delle opere di quest’ultimo. L’attualità di Aristofane consiste proprio nella sua capacità di innovare rompendo le forme convenzionali. Egli ci restituisce la figura di un Dionisio talmente umano da risultare piccino e risibile e riesce a fare politica pur dietro il paravento di una battuta. Aristofane inoltre sarà un diretto ispiratore del teatro del novecento di Bertolt Brecht (1898- 1956) anche per la sua concezione del teatro, inteso uno strumento “di straniamento” e di analisi critica della realtà, e non di immedesimazione e di catarsi”[3]. Nelle Rane, come la volontà di presentare un preciso programma politico diventa occasione di estro creativo e di intrattenimento arguto, la discesa agli inferi non è altro che la ricerca di uno sguardo più nitido e profondo sui vizi e sulle virtù di ogni persona e di ogni città.
E il coro delle ranocchie-cigni, che con leggerezza accompagna questa discesa all’inferi mentre Dionisio rema e si lamenta sulla barca di Caronte, ci traghetta verso un aldilà che non è più minaccioso e tetro dell’aldiquà.
Nell’edizione siracusana 2017 delle Rane, Eschilo e Euripide non sono gli unici poeti ad essere vivificati nella memoria delle spettatore. Il regista Corsetti si riserva infatti la licenza di riportare in vita i suoi stessi poeti prediletti, e l’opera si chiude con un video del 1968 di Ezra Pound intervistato da Pasolini, per rendere omaggio a due autori accomunati dai versi profetici e di denuncia sociale.
[1] Imperio O., “Note alla traduzione”, in Le Rane, 53° ciclo di Rappresentazioni classiche, a cura di Istituto Nazionale Dramma Antico, 2017
[2] Canfora L., Storia della Letteratura Greca, editori La Terza, 1987, pag. 207
[3] Canfora L., “Attualità di Aristofane”, in Le Rane, 53° ciclo di Rappresentazioni classiche, a cura di Istituto Nazionale Dramma Antico, op. cit.
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Mi sono riservato di commentare la bella bella e ricca recensione oggi dopo aver assistito ieri sera alla rappresentazione siracusana, e ne colgo, oltre a molteplici aspetti di condivisione – e a qualche giudizio discordante sulla rappresentazione artistica in se stessa – l’assunto fondamentale che vi si evidenzia ,della valenza politica – in senso proprio – del testo aristofaneo, ,che ritengo essere non solo la parte principale del momento educativo del testo ,specie quando affida al Poeta ,” ..in quella eterna tensione tra etica ed estetica..e della complessità e attualità del quesito sul ruolo che spetta all’Arte..” il dovere sovraordinato ad ogni altro dell’ educazione al Bene ( aggiungo io della “ Città” e non tanto e non solo al bene individuale ). Identificazione ,questa, che è figlia – come cercherò di rendere il più possibile chiaro alla fine di questo mio intervento – di un’autentica “rivoluzione”
Brevemente ,nel merito e nella forma dell’azione scenica , per parte mia ho rilavato una prima parte fiacca e stancante ,affidata impropriamente ad una scena del tutto spoglia dove avrebbero dovuto stagliarsi i suoni e i gesti delle voci e delle” maschere” del padrone e del servo,a mio avviso molto inadeguatamente rappresentate dagli attori ,per timbro,potenza e modulazione di suono ed espressione,troppo volte scadute in macchiettismo di stampo “televisivo”,bilanciati peraltro dalla ben diversa caratura drammaturgica degli attori entrati in scena successivamente ( Eschilo ed Euripide ) e dal coro .Quando invece si è dipanato in tutta la sua smagliante attualità e potenza intellettuale il discorso sulla Politica, e sull’appassionato appello al Cittadino posto di fronte allo svolgersi della Cosa Pubblica,la rappresentazione ha raggiunto un apice assai considerevole e molto apprezzato anche da coloro – in tanti – che pure erano rimasti freddi e perplessi sin lì.
Bellissime ,poi, le invenzioni sceniche delle maschere sporgenti dalle finestre e sugli edifici,bellissima ed estremamente importante la scena della “pesatura” delle parole, non solo esteticamente quando si riconduca a quella “ pesatura” della parte spirituale dell’Uomo così frequente nell’antichità in ogni latitudine e tradizione.
Parte spirituale che indicherei proprio come suggello all’urgenza quanto mai “moderna” delle definizione dell’Arte – segnatamente dell’Arte del Teatro – non come ( o non solo ) come “rappresentazione” .
In questo senso . spero che ,con i miei vivi complimenti, si vorrà accettare la citazione che segue .Essa è tratta da una lettura – difficile ,ma affascinante – che or sono anni fa mi risultò letteralmente rivelatrice, è mi è sembrata costituire un degno e splendido corollario , a coronamento dell’assunto principale della recensione.
Scrive,infatti, il grande scienziato politico tedesco E.Krippendorff,nel suo meraviglioso saggio “ L’Arte di non essere governati “ – Fazi Edit. 2003 – : “..esistevano dispotismi ( prima della nascita della polis,ndr.) teocratici..con alla base una condizione patriarcale ..al vertice un “padre” che domina anche su tutto ciò che ricade nell’ambito della coscieza..le questioni religiose,i rapporti familiari venivano determinati mediante leggi statali; l’Individuo era moralmente privo di identità.. quando nel VI e V secolo a.C. si attua una “ rivoluzione”: non fu una “ rivoluzione politica”,ma al contrario,piuttosto,fu la rivoluzione della dimensione politica…Qui ( nelle piccole polis greche – ndr – ) venne generata la Politica ..e la sua “data di nascita “ fu il 458 A.C. in Atene…quando viene messa in scena la grande trilogia del più antico drammaturgo conosciuto,Eschilo, l’ Orestea..vicenda che costituisce il modello del processo storico di costituzione della Polis,percorso che va dalla prigionia degli automatismi della vendetta fino al momento in cui i cittadini politicamente,mediante i loro tribunali,le proprie decisioni,divengono i protagonisti degli avvenimenti..”
Si tratta niente meno che della scoperta della Politica: sono gli uomini stessi che agiscono,giudicano decidono ,anche il piu grande dei tiranni …è un uomo,non un dio o un semidio…In tal modo il destino di una qualsivoglia comunità organizzata viene riconosciuto e svelato come un destino comune edificato da uomini: è nata la Politica e il suo luogo di nascita è il Teatro…”