di Maria Pia Fontana
Ci sono certi quadri che diventano così familiari da risultare quasi scontati. Ciò è frequente quando l’eccesso di celebrità dell’autore stimola una riproduzione infinita delle sue opere che vengono duplicate, reinterpretate o copiate in forma seriale rischiando di inflazionarsi. Internet contribuisce parecchio a questo processo di saturazione dello sguardo rendendo ancora più ripetitive e ricorrenti certe immagini importate dal vasto mondo dell’arte. Così, ci si può abituare ad un capolavoro allo stesso modo in cui ci si abitua ad un vicino di casa che incontriamo ogni giorno in ascensore e questo processo di assuefazione può farci perdere di vista il significato profondo della produzione artistica inibendo la sua capacità di rinnovare l’emozione che sempre si accompagna alla visione della bellezza, anche quando ci racconta una storia di dolore.
In particolare mi ha colpito la straordinaria fase creativa che Van Gogh attraversò durante il suo ricovero prima nell’ospedale psichiatrico di Arles (dicembre 1888 – maggio 1889) e poi in quello di Saint–Paul de Mausole a Saint Remy, dove l’artista decise di rimanere volontariamente dall’8 maggio del 1889 al 16 maggio del 1890 in seguito al famoso episodio in cui, durante una crisi psicotica causata da un litigio con Paul Gauguin, si mozzò il lobo di un orecchio.
Nel contesto di afflizione e di solitudine dell’ospedale, Vincent riesce a trasfigurare la sua sofferenza in visioni di straordinaria bellezza. A Saint-Paul de Mausole gli mettono a disposizione due stanze, di cui una funge da studio, e lì lavora alacremente per riprodurre gli interni e il giardino dell’ospedale, il paesaggio circostante, particolari della rigogliosa natura e per realizzare qualche ritratto (rileva quello di un medico e di un infermiere dell’istituto).
Se l’espressione degli internati raffigurati in una delle corsie dell’ospedale di Arles (quadro che Van Gogh completò nel corso del successivo ricovero a Saint-Paul) riflette la loro pena rassegnata e silente, la natura conserva i suoi colori smaglianti e le sue forme prorompenti.
“Un modo di vivere così disciplinato e concentrato era in un certo senso favorevole al lavoro. Paradossalmente, in questo ordinato isolamento circondato da pazienti inattivi, afflitti da ogni sorta di patologia psichiatrica, Van Gogh produsse un flusso di tele appassionate, libere, connotate da un senso di urgenza, in cui la natura è pervasa da un battito pulsante e di ritmica forza vitale[1]”.
E’ in questo ospedale che l’artista realizza gli Iris, che probabilmente erano in fiore al suo arrivo, soggetto che rivisiterà la primavera successiva con una potente natura morta che, in quel fascio laterale di fiori cadenti, lascia presagire il tema del declino e della fine incipiente, pur nella vitalità del colore giallo oro dello sfondo.
Nella prima versione degli Iris, 1889 (J.Paul Getty Museum – Los Angeles) le piante sono in primo piano, e si collocano all’altezza dello sguardo di un uomo seduto, manca l’orizzonte e si vede solo una striscia di prato.
A sinistra spicca un grande iris bianco completamente aperto. Chi rappresenta questo fiore bianco, che si distanzia dal gruppo? Forse è lo stesso artista?
Durante il ricovero Van Gogh realizza altri capolavori forse meno noti di Iris, ma di grande impatto visivo. Nel luglio del 1889, dopo un’ulteriore crisi convulsiva, si concentra su un campo di grano che osserva dalla finestra della sua stanza, ne inizia la composizione a luglio e la replica a settembre. Su quest’opera scrive al fratello Theo, con il quale mantiene una fitta corrispondenza che mitiga la durezza della sua solitudine: “finalmente il mietitore è finito. Credo che sarà uno di quelli che terrai in casa – è un’immagine della morte così come ne parla il grande libro della natura – ma l’effetto che ne ho cercato è un accenno di sorriso.
E’ tutto giallo tranne che per una linea di colline viola, giallo chiaro e oro. Trovo strano averlo visto così attraverso le sbarre di ferro di una cella”[2]. Se non avessi letto lo stralcio di questa lettera avrei considerato il quadro un inno alla vita e non un presagio di morte, considerato l’effetto di luminosità che irrompe dalla tela. Eppure l’artista doveva attribuire al mietitore un significato simbolico profondo, falciare il grano metaforicamente diventa recidere il tempo che passa inesorabile, mentre il verde del cielo attutisce il calore della distesa giallo-oro e conferisce un’aura surreale all’immagine.
Il frumento è protagonista di un’altra opera dell’artista, Campo di grano con cipressi (1989) ma qui il cielo, sempre di colore verde, è animato da nuvole sinuose che ripetono le onde delle montagne all’orizzonte.
La presenza del cipresso, che tradizionalmente si collega al cimitero e al tema della morte, ricorre in altre opere di Van Gogh, realizzate sempre durante la sua reclusione a fini terapeutici, di cui una delle più belle è Notte stellata (Musem of Modern Art di New York). Qui l’albero si erge alto e scuro e fa da tramite tra la terra e un cielo di “stelle viventi” simili a soli roteanti che, secondo qualche critico, fanno pensare ad una scena apocalittica o visionaria. Il realismo della raffigurazione (che solo in parte è ispirata alle case di Saint Remy) si fonde con la fantasia e con la memoria dell’artista. Il campanile, infatti, ricorda le chiese olandesi. Scrive Van Gogh: “…guardare il cielo mi fa sempre sognare… Perché, mi chiedo, i punti scintillanti del cielo non sono accessibili come in puntini neri sulla cartina della Francia? Proprio come prendiamo il treno per andare a Tarascon o a Rouen, così prendiamo la morte per raggiungere una stella…”
Durante il suo ricovero Van Gogh è colto da una passione frenetica che lo spinge a produrre incessantemente quasi a sedare l’angoscia e i fantasmi della malattia. Diverse sono le riproduzioni di quadri di altri artisti che egli realizza sia per sopperire alla carenza di stimoli visivi che per sperimentare una forma di rilassamento simile a quello di un compositore che “stanco di arrovellarsi su nuove idee musicali, decide invece di suonare e di reinterpretare il lavoro di un altro musicista[3]”.
L’artista, infatti, riesce a rielaborare con estro creativo altre raffigurazioni pittoriche, specie attraverso un uso originale dei colori. Spesso si tratta scene rurali, altre volte di temi religiosi, come la Pietà (da Delacroix) o la Resurrezione di Lazzaro (da Rembrandt) entrambe del 1889. “E’ certamente significativo che nell’interpretare la Pietà di Delacroix Van Gogh attribuisca alla figura di Cristo capelli e barba rossi e che Lazzaro, soggetto ripreso da una piccola porzione di un’acquaforte di Rembrandt, abbia i suoi lineamenti scarni ed incolori[4]”.
Ma l’opera che in assoluto ha suscitato in me l’emozione più forte è Mandorlo in fiore (1890), quadro realizzato dall’artista con l’intenzione di fare un regalo al fratello Theo per la nascita del nipotino che avrebbe portato il suo nome (e al quale si deve peraltro l’avvio della realizzazione del museo di Amsterdam a lui dedicato). Quest’opera mi ha letteralmente catturata e commossa per diversi minuti, non per le sue caratteristiche tecniche o per l’evidente influenza dell’arte giapponese, ma per la dolcezza e per la grazia con cui i rami del mandorlo si intrecciano intessendo un ricamo in cielo e per la luminosità gentile dei colori che rappresentano un inno alla tenerezza che si accompagna alla vita nuova.
Scrisse Vincent a Theo “spero che la famiglia sia per te quello che la natura e le zolle di terra, l’erba, il grano giallo, i contadini, sono per me, in altre parole che tu trovi nell’amore per le persone qualcosa per cui non lavorare soltanto, ma in cui trovare conforto e ristoro quando ne hai bisogno”.
C’è in questo auspicio la malinconia del genio sofferente e solo che trova consolazione unicamente nella capacità dell’arte di celebrare e di trasfigurare la bellezza della natura.
La genialità triste e umile di Van Gogh, sempre incline al paziente e tenace sforzo di padroneggiare la tecnica pittorica in cui raggiunse l’eccellenza senza mai coltivare la superbia del talento innato, è il suo dono per noi, un dono che resta luminoso a fronte dell’epilogo tragico della sua vita. E’ noto, infatti, che l’artista morì il 27 luglio 1890 all’età di 37 anni, dopo essersi sparato un colpo al petto. Eppure tutta la sua vasta opera di quasi 900 dipinti testimonia l’interesse verso l’umanità, specie per le fasce sociali più deboli, e soprattutto l’amore per i paesaggi, il cielo e le sue nuvole, i campi giallo-oro, gli iris o i girasoli, gli alberi talvolta contorti come gli ulivi altre volte dritti come i cipressi, e rende omaggio alla grandezza dell’arte che canta la lode della natura infinite volte e con innumerevoli e sempre diverse pennellate di colore.
[4] Ibidem, pag. 166
copyright 2018 © by Maria Pia Fontana – Tutti i diritti sono riservati
Mariapia sei bravissima.
E’ un piacere leggere i tuoi articoli.
Un piacere , non solo culturale, di apprendere informazioni o notizie non conosciute personalmente, ma è un piacere anche per lo spirito, per come ti poni, e per l’introspezione del personaggio che riesci a tracciare con semplicità.
brava.
continuerò a leggerti.
a presto
Vito
Condividere esperienze culturali è un modo per farne fruttificare il potenziale di crescita e rappresenta una fonte di benessere per me. Ti ringrazio per gli apprezzamenti e spero che Socialmentis possa sempre trovare il tuo gradimento e possa godere della tua partecipazione attiva e di qualità. Un caro saluto, Maria Pia
Che la Sofferrenza,del corpo e dell’animo.sia la gran madre di ogni più profonda poesia e del suo linguaggio più alto,l’arte,oggi noi contemporanei lo abbiamo capito a fondo e cosi bene interiorizzato che ci sfugge la grandezza “morale” di sublimi Artisti come Van Gogh.
Di lui,abbiamo etichettato il genio artistico ,pittorico,come espressione di “follia” e la sua grande capacità innovativa espressiva come “genialità” di individuo “eccezionale”, “fuori dal comune”..
Forse il pregio più bello della tua ammirata e così compartecipata carrellata critica sull’Opera di questo immenso poeta della Pittura,sta nell’averci dato quel tratto che io,e credo molti come me,non abbiamo mai avuto modo di osservare bene e di capire nell’espresività esistenziale della sua vita e della sua opera.
E’ il passo citato della lettera al fratello Teo,in calce all’immagine dello stupendo “Mandorlo n fiore” ; una così grande tenerezza ,proprio di ogni ’”uomo comune” per la vita vera fatta di “zolle di terra,erba,grano giallo,contadini..”della sua Arte grandissima che vale l’ Amore altrettanto grande quanto “semplice” del calore quotidiano,base naturale di ogni esistenza ,proteso alla custodia amorevole e preziosa di chi dia alla propria vita il senso più alto del “non lavorare soltanto ” e l’approdo più certo e sicuro nei momenti in cui lo sconforto nega ogni desiderio e forza di vivere.
Come hai notato è proprio dalle lettere che si può ricavare il vero significato delle sue opere e seguire il sofferto percorso di vita di Van Gogh. Sicuramente non avrebbe gradito nessuna etichetta in grado di oscurarne l’umanità e di appiattire la complessità della sua identità. Visse gran parte della sua vita nella generale incomprensione. Non riuscì a trovare un amore che colmasse i suoi desideri profondi anche se sperimentò qualche relazione sentimentale più significativa. Il suo più grande amore fu verso la natura lontano dagli schematismi di un certo modo di rappresentare, sancito canonicamente. Scrive Van Gogh: “senza saperlo l’accademia è un’amante che impedisce che un amore serio, più ardente e più fecondo, si risvegli in te. Lascia perdere quest’amante e innamorati disperatamente del tuo vero amore: la Natura o la Réalité. Anch’io mi sono innamorato e, disperatamente, di una certa Natura o Réalité e da allora sono felice, anche se mi resiste crudelmente e ancora mi rifiuta”. All’arte dedicò la sua vita e se non lo salvò, senz’altro lo consolò.
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