Di Maria Pia Fontana
La differenza biologica tra uomo e donna e la loro complementarietà, che nel Confucianesimo diventa paradigma interpretativo dell’universo attraverso i principi dello Yin-ombra-luna-terra-femminile e dello Yang-luce-sole-cielo-maschile, ha certamente dei riverberi sul piano psicologico ed emotivo, se è vero che noi non possediamo il nostro corpo, ma siamo il nostro corpo. Simone de Beauvoir, che affermava che donne non si nasce, ma lo si diventa, dichiarava pure che “nessuna donna può pretendere in buona fede di porsi al di là del proprio sesso”[2].
La famiglia moderna o famiglia coniugale intima si configura a partire dalle città tra la fine del 1700 e i primi dell’800 con l’affermarsi di due valori: quello della libertà individuale e quello della felicità personale[6]. Ne deriva che il matrimonio, da unione imposta e combinata dalle famiglie di origine, diventa una libera scelta individuale in parallelo alla nascita dell’amore romantico. Al centro del nuovo modello di famiglia vi è il rapporto tra madre e bambino, la donna viene identificata come madre non solo in senso biologico ma soprattutto “relazionale” e viene enfatizzata la divisione dei compiti tra uomo e donna. A fine ottocento, la madre casalinga diventa una regola per le donne delle famiglie borghesi e un’aspirazione per quelle degli altri ceti sociali[7]. Con l’affermarsi del capitalismo, la trasformazione dei contadini in operai e la separazione del luogo di lavoro dalla casa familiare, si afferma il ruolo della casalinga pure nei ceti polari, anche per l’influenza esercitata dalla Chiesa cattolica che propone un modello di donna come regina del focolare domestico, votata all’abnegazione.
In questo senso, il quadro di E. Schiele Madre con due figli del 1917, pur nella raffigurazione della malattia, può essere esemplificativo di un modello di femminilità ancorato rigidamente ai ruoli di madre e di moglie, dando risalto al sacrificio personale ed incondizionato della donna, soprattutto a favore della prole, che nei fatti la prosciuga di vitalità ed energie, impedendole ogni altra libera espressione della propria identità. Questa visione comincerà a perdere la sua indiscussa forza persuasiva grazie alla voce critica di poetesse e di scrittrici del Novecento, tra le quali ricordiamo Ada Negri (1870-1945) che ci offre uno spaccato prezioso della condizione delle donne operaie. Sibilla Aleramo (1876-1960), in particolare, sotto l’influenza del dramma di H. Ibsen “Casa di bambole” (1879), nel suo romanzo autobiografico Una donna (1906), sosterrà con passionale determinazione il diritto di ogni donna alla felicità e alla realizzazione di sé in quanto persona: «Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. (…). Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e se una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità? (…)».
Se il racconto femminile sulla condizione della donna nella società riesce progressivamente a raggiungere una maggiore profondità e capacità di penetrazione psicologica, generalmente nella rappresentazione maschile che si riflette nelle varie espressioni artistiche, dall’arte figurativa alla letteratura, la donna appare più stereotipata, con una tendenziale costruzione di tipologie che ricalcano il prototipo dell’angelo, della martire o, ancora, della prostituta. Emblematico può dirsi il quadro “La Sfinge” del 1894 contenuto nell’opera Fregio della vita di E. Munch, che mostra visivamente questa tentazione maschile alla categorizzazione contro la quale si sollevarono tante voci di donne.
Si comprende, quindi, il sentimento di dolente incomprensione che Alda Merini, donna diversa tra diverse, affida ai suoi versi denunciando la violenza insita in ogni etichettamento sociale: “[…] In me l’anima c’era della meretrice, della santa, della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti diedero al mio modo di vivere un nome e fui soltanto un’isterica”.
In campo sociologico, Talcot Parsons negli anni ’50 del Novecento fissa in una sorta di necessità e immutabilità sociale l’immagine della famiglia moderna, fondata su ruoli rigidamente differenziati, caratterizzata da una struttura nucleare e dall’isolamento delle famiglie di origine. Parsons definisce il padre leader strumentale (cioè colui che fa da tramite tra la famiglia e l’esterno e prepara i figli alla carriera sociale) e la madre leader espressivo. Questa teoria attribuiva alle donne la “necessità funzionale”, oltre che biologica, del ruolo casalingo e materno. Ne deriva che fino al 1968 la famiglia italiana ripropone uno stereotipo centrato sulla prevalenza del potere paterno, assorbendo così l’eredità maschilista del fascismo ma anche l’insegnamento del cattolicesimo. A partire dagli anni ’60, si assiste tuttavia ad una rivoluzione epocale. Con la diffusione dell’uso dei metodi contraccettivi, la procreazione diviene un atto di volontà e ciò consente un controllo delle nascite che cominciano a calare sensibilmente per l’incidenza di fattori economici quali la crescita dei costi per il mantenimento dei figli, che appaiono sempre meno capaci di garantire risorse materiali alla famiglia in termini di produttività, ma anche per l’effetto di fattori culturali, come la ricerca di una genitorialità responsabile. Tutto ciò contribuisce a rendere ambivalente la scelta procreativa: da un lato il figlio è un valore, dall’altro ogni figlio desiderato deve nascere. Infatti, in un contesto segnato dalla crescente rottura del vincolo coniugale, la genitorialità diventa l’unico legame familiare indissolubile e capace di appagare bisogni di realizzazione personale, e inoltre le tecniche procreative offrono sempre nuove possibilità. Visto che la maternità è diventata una scelta, essa non è più l’unica fonte dell’identità femminile che verte ora sul possesso di un capitale scolastico da utilizzare in ambito professionale e sulla rivendicazione di un’autorealizzazione anche al di fuori della sfera domestica.
Dagli anni ’70, le donne si caratterizzano sempre più per una doppia presenza, tra famiglia e lavoro, assumendo sia un ruolo espressivo che strumentale. Tuttavia, tale cambiamento non è avvenuto in modo uniforme e nei fatti si è tradotto in un aggravio di fatica per la popolazione femminile a causa della difficile conciliazione pratica ed organizzativa tra incombenze familiari ed impegni professionali[8]. Secondo i dati resi noti dal Global Center Gap Report del Word Economic Forum del 2020 ci vorranno ancora 99,5 anni per raggiungere la parità di genere al livello mondiale mentre per raggiungere la parità di accesso alla partecipazione economica ne saranno necessari addirittura 257[9]. Rispetto alla situazione italiana, si registra un arretramento tra il 2018 e il 2019 in quanto il nostro paese è sceso dal 70esimo posto al 76esimo soprattutto a motivo delle modeste opportunità e partecipazione alla vita economica a cui si associa un differenziale di trattamento salariale che pone l’Italia al 125 posto su una lista di 153 paesi. In Italia lavora ancora meno di una donna su due e se le donne hanno figli la situazione peggiora: l’11/1% delle madri con almeno un figlio non ha mai lavorato[10].
Punte di grande arretratezza si registrano anche nel rapporto tra donne e media, con riguardo ad esempio alla rappresentazione del genere femminile veicolata dalla televisione. Il Comitato delle Nazioni Unite che ha il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna ha evidenziato come nelle trasmissioni televisive italiane permanga una rappresentazione sessista della donna, svilita ad elemento decorativo vuoto di contenuti, ossessionata da una mitologia dell’eterna giovinezza e da canoni estetici proibitivi, con un sostanziale impoverimento di ruoli che porta a negare soggettività e visibilità alle donne anziane, grasse, poco avvenenti e disabili.
L’analisi della tipologia di vallette coniate dalla Tv italiana è in questo senso eloquente e deprimente insieme. Si va dalle Ragazze coccodè della trasmissione Indietro tutta del 1987, alle Veline di Striscia la notizia, popolari dal 1989, fino ad arrivare alle Letterine di Passaparola, sulla cresta dell’onda dal 1999 al 2006. “La nostra società – rileva G. Priulla- sembra esaltare la fisicità e la sessualità, in realtà le svilisce, scambiandole con i loro simulacri. La messa in mostra non libera i corpi, anzi li riporta al vecchio ruolo di oggetti”[13]. Va appena evidenziato anche il collegamento tra violenza di genere e la pornografia, considerato che il mercato pornografico è in piena espansione e non conosce la crisi economica. Secondo l’American Psychological Association la progressiva sessualizzazione delle immagini di donne, ma anche di uomini e minorenni, contribuisce alla “pornificazione del quotidiano” (2010). Mentre alcune femministe ritengono che la libertà sessuale sia un elemento cruciale dell’emancipazione, altre come C. Mac Kinnon e A. Dworking ben evidenziano come una rappresentazione ossessiva di donne disponibili, oggettivate, vulnerabili, deumanizzate, concorra al “mantenimento della subordinazione femminile” e porti a relazioni sessuali senza alcun coinvolgimento emotivo aprendo la porta alla violenza e alla aggressività.
Infine, i mutamenti sociali che hanno interessato l’identità femminile vanno visti in relazione ai cambiamenti che hanno investito il ruolo maschile, impegnato in una ricerca di una nuova fisionomia in grado di valorizzarne anche istanze espressive, allontanandosi dal modello della mascolinità egemone coniato da R. Connell (1996) e ormai palesemente in crisi. Tuttavia, utilizzando come metafora il quadro Decalcomania di Renè Magritte del 1966 all’abbandono del vecchio modello non corrisponde in modo chiaro la definizione di uno nuovo.
Da un lato abbiamo l’emersione di padri più presenti affettivamente, ma dall’altro si sono diffusi fenomeni di latitanza maschile nell’ambito di casi sempre più frequenti separazione e di divorzio, così come si sono moltiplicati gli irriducibili scapoli più o meno d’oro che hanno fatto della Sindrome di Peter Pan e dell’eterno giovanilismo scevro da responsabilità affettive la loro regola aurea. Inoltre, accanto a uomini che hanno atteggiamenti positivi verso la parità, persistono ancora pratiche tradizionali. Di norma, anche quando i padri investono tempo nella relazione con i figli si dedicano principalmente ad attività più gratificanti (es. gioco e tempo libero) rispetto alla cura materiale. Conseguentemente, la rivoluzione dell’identità femminile e maschile, che non sempre è stata lineare, è ancora in progress, sia perché l’avvicinamento tra i ruoli sembra a volte più pronunciato nel mondo del lavoro che in famiglia, e sia per il persistere di molte differenze regionali o tra i vari ceti[15]. A differenza delle lotte sostenute in passato dai movimenti femministi, oggi le donne non devono conquistare la titolarità dei diritti su un piano formale, quanto piuttosto riuscire ad azionarli concretamente per evitare che la parità sia solo nominale. E sono necessari nuovi modelli di femminilità e di mascolinità che, pur superando le demarcazioni rigide tra i generi (anche attraverso una pacificazione interiore tra la componente maschile e femminile dell’identità di ogni persona) non rinuncino a valorizzare le rispettive specificità di donne e uomini e l’apporto virtuoso che entrambi possono dare al progresso sociale in tutti i campi del sapere e delle professioni, per abbandonare sia i vecchi schemi del privilegio maschile che le nuove trappole della competizione individualistica. Oggi il principale nemico dell’emancipazione femminile non è più la società patriarcale ma la logica consumistica che rende il corpo della donna, spesso con la sua stessa complicità, un espediente per vendere un prodotto o un mero oggetto di consumo. A differenza di qualche autore[16], non si crede che, di fronte ad un uomo “imbozzolato nella sua immaturità” e nella sua crescente insicurezza, le donne rappresentino la speranza del genere umano. La partita del futuro non può che giocarsi insieme, facendo in modo che la società sia in grado di ospitare le complesse manifestazioni di talenti e di individualità e possa consentire a ciascuno di poter gioire dei successi dell’altro genere, come del proprio. Ma per sperimentare il piacere di questa generosità ogni persona deve preliminarmente trovare il proprio posto nel mondo e deve poter contare su condizioni sociali di base che consentano di coltivare il proprio desiderio di un volo ad alta quota disponendo, ovviamente, di possibilità concrete per realizzarlo.
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[1] Sulle differenze morfologiche e funzionali tra il cervello maschile e femminile, che non determinano ovviamente un diverso quoziente intellettivo ma specifiche modalità di organizzazione e di valutazione dei dati sensoriali, a sua volta condizionate dall’ambiente, si rimanda agli studi del prof. Paolo Pancheri dell’Università la Sapienza di Roma e, per una sintesi di qualche ricerca condotta anche all’estero, al testo di Cantelmi T., Schicchitano M., Educare al femminile e al maschile, ed. Paoline, 2013
[2] De Beauvoir S., Il secondo sesso, ed. originale 1949, ed. italiana Il Saggiatore, 2008
[3] Sull’analisi dei diversi universi simbolici, vedi Scabini E., Cigoli V. Il familiare. Legami, simboli e transizioni, ed. Cortina, Milano, 2000
[4] Recalcati M., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli all’epoca del tramonto del padre, ed. Feltrinelli, Milano, 2013
[5] Iafrate R., Bertoni a., Gli affetti, dare senso ai legami familiari e sociali, ed. La scuola, Brescia, 2010
[6] Per una sintesi sull’evoluzione dei modelli familiari dalla metà del ‘700 ai nostri giorni si rimanda a Zanatta A. L., Nuove madri e nuovi padri, ed. Il Mulino, Bologna, 2011
[7] Zanatta A., op. cit. pag. 21
[8] Zanatta A., op. cit. pag. 39
[9] Si rimanda al commento su Global Gender Gap Report: l’Italia arretra nella classifica della parità di genere, consultabile su https://valored.it/news/global-gender-gap-report-wef-2020/, ultimo accesso in data 07.03.20
[10] ibidem
[11] Marro E. “Culle vuote: Italia maglia nera per la natalità. Fortuna che ci sono i migranti”, consultabile su https://www.ilsole24ore.com/art/culle-vuote-italia-maglia-nera-la-natalita-fortuna-che-ci-sono-migranti-ACVLLqX, ultimo accesso g. 07.03.20
[12] Deriu M., Tra la crisi del padre e l’ombra della madre: (oltre) i limiti della democrazia, in Pedagogica n. 3, anno XII (2008) “Istituzioni e democrazia”.
[13] Priulla G, C’è differenza, Identità di genere e linguaggi: storie di corpi, immagini e parole, ed. Franco Angeli, 2013, pag. 192
[14] Si rimanda alla rilevazione Gli Stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale, su https://www.istat.it/it/archivio/235994, ultimo accesso g. 07.03.20
[15] Zanatta A., pag.55
[16] Cataluccio M., Immaturità. La malattia del nostro tempo, ed. Einaudi, 2014