di Maria Pia Fontana
E’ arduo scrivere parole nuove su un tema così difficile, universale ed indigesto come la morte, parole che non siano usurate dai luoghi comuni o che non siano dettate solo dal nostro bisogno di sedare l’angoscia del vuoto e dell’imprevisto. Bisognerebbe essersi confrontati con la morte in modo diretto e vicino, perché si è giocata con lei una lunga ed estenuante partita a scacchi o perché ha già menomato una parte del nostro cuore portandosi via una persona cara. Occorrerebbe toccare con mano il dolore di chi resta, specie per le morti dirompenti ed inattese, quelle che colgono come un fulmine a ciel sereno. Penso agli immigrati in mare, ai morti per terrorismo o per mafia, alle perdite dei bambini inermi, ai decessi dovuti ad un tragico incidente o per calamità naturali, a tutti i morti in guerra…
Forse sarebbe utile fare incursione in ciò che hanno detto i filosofi, nello sforzo supremo di piegare la morte alle logiche del pensiero, oppure bisognerebbe rileggere ciò che hanno scritto i poeti, visto che la poesia custodisce le parole che più si avvicinano al silenzio e al mistero del dolore indicibile, quando il linguaggio rivela i suoi limiti. Ma sarebbe utile anche conoscere le parole di chi ha raccontato la morte spogliandola dai suoi luoghi comuni, dai rituali di circostanza, dalle parate funebri prive di calore. Ma per quanto fossimo dotti su questo tema, la morte proverebbe sempre la nostra ignoranza, giacché sarà sempre impossibile conoscere i suoi infiniti volti, esplorare la catena infinita delle sue cause colpose o non colpose, come anche delle sue conseguenze e, soprattutto, poco o nulla sapremo mai della nostra stessa fine o quale sia il significato di alcune morti assurde e crudeli. E anche se Epicuro, sposando una logica materialista, sosteneva che quando c’è la Signora Nera non ci siamo noi e viceversa, nei fatti l’esistenza dell’anima e la sua sopravvivenza oltre il bordo della vita biologica resta avvolta nello stesso mistero che segna l’esistenza di Dio: la scienza e la logica non può (ne deve) dimostrarla, ma neppure può negarla.
Visto, quindi, che sono consapevole della mia ignoranza, riconosco la debolezza e l’insufficienza delle mie parole, ma sentivo di fissarle allo stesso modo in cui si sente il bisogno di appendere un piccolo quadro su una parete rimasta a lungo spoglia. Forse, tra qualche tempo, ne appenderò un altro capace di aprire una finestra più grande su questo muro.
E’ chiaro che per un essere dotato di autocoscienza, quale noi siamo, la morte è la feritoia da cui penetra l’angoscia dell’assurdo, anche se dovessimo mantenerci nella naturalità del ciclo di vita. Veniamo al mondo con un’esistenza già ipotecata, soggetta ad una scadenza certa, sebbene nell’indeterminatezza e precarietà del termine finale, e saperlo ci espone allo sgomento di guardare la sabbia della clessidra che si consuma irreversibilmente nonostante il benessere abbia allungato la nostra speranza di vita. “Rammentati che il Tempo è un giocatore ingordo, che vince senza barare, sempre! Rammenta! E’ legge. Il giorno decresce; la notte aumenta; la clessidra si svuota; ha sempre sete il gorgo…”(da L’orologio di C. Baudelaire). Quindi, mentre l’uomo avanza nella vita, la morte avanza verso l’uomo. Sembrerebbe un’indicibile crudeltà essere consapevoli di esistere e nello stesso tempo essere consapevoli di dover morire, osservandosi nel proprio progressivo e penoso deperimento. Per questo l’essere umano è l’unico essere vivente capace di toccare le punte estreme della massima gioia e del massimo dolore esistenziale. La morte rompe irreversibilmente e dolorosamente la vocazione dell’animale sociale per eccellenza quale noi siamo, che è quella di comunicare, di essere nel mondo in relazione. Con la morte cala il sipario del silenzio eterno. E’ a questa straziante incomunicabilità che G.Tornatore dedica il suo ultimo film, La Corrispondenza (2016), che racconta appunto il tentativo di un uomo di mantenere aperto il dialogo con la donna che ama oltre la vita, grazie alle nuove tecnologie.
Ogni civiltà ha cercato attraverso le sue produzioni culturali, che hanno dato vita a sistemi di pensiero, credenze religiose, manifestazioni artistiche, forme architettoniche, ma anche a rituali e simboli, di attribuire un significato alla morte, di interpretarla e di metabolizzarla come emblema della nostra vulnerabilità e al contempo come vincolo di sottomissione alle leggi e ai limiti che regolano la grande macchina della natura. Altre volte, invece, è prevalso il bisogno di operare una rimozione della morte, di esorcizzarla e di negarla, oppure, al contrario, di spettacolarizzarla, farne oggetto di audience e di profitto. E mentre il diritto di porre fine alla vita, quando la vita perde i suoi connotati umani, entra nel dibattito giuridico con tutta la problematicità che l’eutanasia porta con sè, talvolta assistiamo con sgomento alla scelta estrema di darsi la morte come estrema soluzione al vuoto affettivo, alla disperazione e al nichilismo.
Se l’uomo vive per essere in relazione e la forma perfetta di relazione è l’amore, che, come mostra la sua radice etimologica, a-mors, è proprio la negazione della morte o la sua sconfitta, si può recidere il legame con la vita in modo tragico ed innaturale anche perché mossi dalla frustrazione di questo desiderio di legame profondo. Non a caso S.Freud considerò Eros e Thanatos, due forze poste come architrave dell’esistenza, in duello perenne o in perenne dialettica e A.Schopenauer nei Parerga e Paralipomena (1851) scriveva “ogni separazione ci fa pregustare la morte, ogni riunione ci fa pregustare la risurrezione”.
Come gli animali l’uomo è dotato dell’istinto di conservazione e, almeno chi percepisce in modo vivido che tempus fugit e si attribuisce un qualche talento o attitudine, è vocato ad essere un insegnante, vorrebbe cioè lasciare un segno, un’impronta persistente si sé che non venga spazzata via al primo colpo di vento. In fondo, come anche J.Jaworski aveva notato, più che avere paura della morte le persone temono di non aver mai vissuto veramente, di non aver saputo realizzare lo scopo della loro vita, di non aver dato cioè alla vita stessa un senso. In termini psicologici è noto come il bisogno di procreare nasce anche dall’aspirazione a rinnovare sé stessi assicurandosi una durata simbolica.
L’inaccettabilità della morte l’ha sempre resa una realtà da rimuovere, ma rinnovarne il ricordo ha di contro rappresentato una sorta di espediente “educativo” teso a calmierare gli eccessi e le derive di onnipotenza dell’uomo. Grazie a Tertulliano sappiamo che quando i generali ritornavano da una missione vittoriosa, dopo aver attraversato una folla in deliro, una persona, che di norma era uno schiavo, aveva il compito di poggiare sul capo del triunphator una corona d’alloro dicendogli:”Respice post te! Hominem te memento!”, Guarda dietro di te, ricordati che sei un uomo! Quindi, nel massimo momento della gloria personale per aver vinto il nemico esterno, il condottiero doveva dimostrare a sé stesso di saper vincere quello “interno”, lo stupido autocompiacimento. Tale usanza indica che gli insegnamenti profondi, nascono dall’incontro capace di creare ponti di umanità, intime condivisioni tra esseri accomunati da un medesimo approdo a prescindere dalle differenze sociali. E mi viene in mente la lode sul carattere democratico della morte, capace di appianane ogni privilegio sociale, che A. De Curtis, in arte Totò, compose con melanconica ironia ne A livella. Tuttavia, a ben vedere, la morte sa essere equa solo se lo è stata la vita e non basta un attimo per cancellare un’esistenza segnata dalle ingiustizie sociali.
La religione cristiana riprese il motto Memento mori e, soprattutto durante il medioevo, lo utilizzò come esortazione per rammentare la vanità e la brevità della vita terrena intesa come preparazione alla vera vita eterna, in sintonia con il messaggio racchiuso nelle sacre scritture: “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”, “Ricordati uomo che sei povere e polvere ritornerai”, mette in guardia la Genesi (3, 19) con un’espressione di grande effetto ed impatto emotivo che riporta l’uomo a quella umiltà che solo la terra, humus, da cui proviene può restituirgli. Secondo la prospettiva religiosa, sarà Cristo, unica vera “Via, verità e vita” a donare all’uomo una promessa di eternità attraverso il dono supremo e generoso di sé, che solleva l’umanità dal peccato. E mentre San Francesco chiamava la morte “Sorella”, i frati trappisti dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza, ispirato alla regola di San Benedetto, ripresero il memento mori non tanto per condurre un’esistenza tesa a “scavarsi la fossa”, come qualcuno sostiene, quanto piuttosto per spronare all’azione nel qui e nell’ora, dando al carpe diem un’accezione tesa a valorizzare il servizio comunitario, l’ascesi spirituale e l’abbandono dei beni materiali.
Molte manifestazioni artistiche, dalla musica alla pittura, nei secoli hanno contribuito a diffondere e a dare forza all’imperativo categorico del memento mori, nonostante la naturale e salutare tendenza di ciascuno a mettere l’ammonimento in un angolo poco in vista della propria coscienza. Non si può infatti vivere intensamente con lo sguardo rivolto ad una bara. Tuttavia, i cimiteri, i mausolei, le catacombe, le cripte e la ricorrenza dei defunti non sono altro che una grandiosa manifestazione visibile del memento mori, allo stesso modo in cui i funerali dei parenti, conoscenti ed amici rappresentano un rito di commiato ma anche un avvertimento che risveglia in noi il ricordo della nostra condizione di esseri finiti.
Tuttavia, il motivo per cui questa memoria vivida o latente, cosciente o rimossa, può o meno condizionare in positivo la nostra vita inducendo a condotte costruttive o distruttive, non si presta ad interpretazioni semplicistiche. Perché la consapevolezza di dover morire orienta certe persone verso il gesto esemplare, la generosità, la realizzazione dei propri talenti, e invece porta altre verso lo spegnimento della depressione, oppure verso l’edonismo, l’accaparramento ossessivo di oggetti come di esperienze, all’unico scopo di fare una grande scorpacciata di cibo, anche nocivo, prima del digiuno eterno? Dietro ogni dipendenza c’è l’angoscia del buco nero da riempire e ogni buco nero è il salto nel vuoto che la morte porta con sé. Non sappiamo se Hitler e Stalin si credessero o meno eterni, ma quello che sappiamo è che molti non si curano di seminare morte e dolore per sé e per gli altri nonostante questo memento mori, anzi forse proprio per questo. La consapevolezza di avere un’esistenza finita e precaria non è quindi educativa in sé, non solo perché la morte educa solo se è stato educativo il nostro cammino, ma anche perché ciò che conta è che l’uomo sia capace di educare sé stesso. Tuttavia, nella misura in cui la morte espone tutti al mistero e al senso ultimo della nostra presenza, è in grado di edificare ponti tra ogni essere umano, a prescindere dal proprio credo religioso e dalla fede nella sopravvivenza dell’anima, se non si spegne l’attitudine all’interrogazione e alla ricerca del significato profondo del proprio passaggio.
Quindi, riappropriarsi della dialettica costruttiva che la morte può avere con la vita, fino all’ultimo giorno della nostra presenza nel mondo, resta il nostro compito pedagogico più importante e faticoso. Il come ciò possa avvenire rappresenta il più grande “miracolo” soggettivo e creativo di ogni persona. Dipende dalle esperienze, ma anche da doti personali quali la forza d’animo, il coraggio, il sano realismo, l’amore per la vita generativa e l’amor proprio, nel senso nobile del termine. Inoltre, la cura di chi ci ha messo al mondo ed entra nella fase conclusiva del suo cammino rimane la via maestra di educazione alla nostra finitezza, malgrado la cultura dominante tenda a rimuovere la vecchiaia o ad emarginarla in luoghi di confino.
Una storia Zen narra che quando un uomo ricco chiese al maestro Sengai di scrivergli qualcosa sulla felicità della sua famiglia, il maestro gli consegnò un biglietto con la frase “Muore il padre, muore il figlio e muore il nipote”. Di fronte all’ira dell’uomo, Sengai rispose che se la morte avesse colpito la sua famiglia secondo quell’ordine, avrebbe seguito il corso naturale della vita e così avrebbe avuto la più grande e realistica prosperità (da 101 Storie Zen, a cura di N.Senzaki e P.Reps, ed. Adelphi, 1997). Non possiamo dunque aspettarci di meglio che morire e di veder morire senza imprevisti, senza lacerazioni inattese, senza che la morte sia il frutto della violenza dolosa dell’uomo o della sua colpa e senza che la natura si mostri a noi come matrigna. Nonostante il sogno di eternità abbia sempre accompagnato l’uomo trovando alimento e complicità nel crescente potere tecnologico, l’immortalità si rivelerebbe una disgrazia perché ci priverebbe dell’unica reale possibilità di crescere in generosità verso chi ci ha preceduto e verso chi ci segue. E se non è affatto scontato che la morte educa, la sua assenza sarebbe “diseducativa” perchè non ci sarebbero argini alla megalomania e all’egoismo. E forse neppure alla noia.
Un antico motto latino riconducibile a M.A. Lucano recita Scire more sors prima viris, saper morire è la sorte migliore per un uomo. Ma la buona morte si prepara con la buona vita e la vita è buona se ciascuno, come scrive Walt Whitman, avrà contribuito al grande poema dell’universo anche con un unico, originale e, aggiungo io, edificante verso. Ma in fondo, basterebbe solo una parola. E quando la morte detterà la fine della nostra storia, contribuendo a ridefinirne il senso, il racconto di noi o la narrazione che noi abbiamo contribuito a scrivere potranno generare vita nuova.
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Una grande riflessione come questa non può che scaturire da una grande domanda
Ho pensato a lungo ,leggendo e rileggendo questo bellissimo scritto così ricco di mille possibili “risposte” e di mille sfumatura interiori ,quale fosse questa domanda che man mano argomentando si trasferiva su du di me ,il “perchè” di essa, cosa volesse comunicare .
Alla fine credo che ne emerga una ,su tutte , anche se rivestita da mille abiti di pregiato ragionamento e di preziose evocazioni : ha dunque un senso la morte ?
Non mi esimerò dal dare la mia personalissima risposta per il rispetto dovuto al coinvolgimento intellettuale e spirituale che merita questa profonda riflessione ;
ed è che no,non ha alcun senso la morte !
Serve solo a mitigare questo immenso sgomento la pur bellissima notazione che viene posta in giusta evidenza ( e che ci è propria nel momento in cui siamo stati capaci di assumere una dignità esistenziale di ordine superiore) sulla “perfezione” dell’ Amore e quando si cita Jaworski : “più che avere paura della morte le persone temono di non aver mai vissuto veramente, di non aver saputo realizzare lo scopo della loro vita, di non aver dato cioè alla vita stessa un senso…”
Essa,la Morte, è orribile, “inconcepibile” non solo per l’immondo mantello di dolore e di devastazione che porta addosso; essa è soprattutto assolutamente inconciliabile con quello che si definisce invece il “naturale” svolgimento della vita. Essa interrompe una interiore ed eterna atemporalità che ogni uomo custodisce dentro di se, dove percepisce e si nutre solo di Vita e di Luce,affrancate da ogni legame meramente materiale , in modo “insensato”,mostruosamente “irrazionale” non costituendo una naturale evoluzione di cio che non può essere interrotto..
Essa ” non esisteva” ,non era presente alle Origini della Vita e dell’Uomo,essa non era “prevista”,dal naturale svolgersi del Tempo; essa è “entrata” per una forma uguale e capovolta dell’Onnipotenza divina ,chiamata “Male” , ad un certo momento di un tempo inconoscibile e incommensurabile, ma certo,ad interrompere e a negare quello che invece è proprio dell’Uomo,”connaturale” alla Vita.
Essa,infatti,sarà sconfitta,annientata,nel momemento del grande Ritorno.E con ciò si ripristinerà il senso,il “corso” vero e unico di questa “Immagine” divina che siamo,oggi prigioniera di una “inspiegabile” ,orribile contraddizione ..
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Per questo su di lui puoi appoggiarti, sa prendersi responsabilita, sa sostenere il peso della vita, senza fuggire, anche se a volte piange perche la vita sembra schiacciarlo.
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